martedì 28 febbraio 2017

La Riforma come fenomeno cittadino.
Uno degli aspetti più notevoli della Riforma europea è che essa è stata in gran parte un fenomeno urbano. In Germania più di cinquanta delle sessantacinque città libere imperiali si dichiararono favorevoli alla Riforma, e soltanto cinque preferirono ignorarla del tutto. In Svizzera, la Riforma ebbe origine in un contesto urbano, la città di Zurigo, e si diffuse mediante il procedimento del dibattito pubblico all’interno di città confederate come Berna e Basilea, odi altri centri come Ginevra e San Gallo, legati a quelle città da accordi e trattati. Il protestantesimo francese ebbe inizio come un movimento prevalentemente urbano, con le sue radici nelle città maggiori: Lione, Orléans, Parigi, Poitiers e Rouen. Perché, ci si è chiesti spesso, la Riforma esercitava una così forte attrazione sulle comunità urbane del XVI secolo? Sono state avanzate numerose ipotesi per spiegare questo fenomeno.

L’ipotesi di Berndt Moeller.
Berndt Moeller ha sostenuto che il concetto di comunità urbana era stato distrutto nel XV secolo dall’aumento di tensione sociale all’interno delle città e da una crescente tendenza ad affidarsi a organismi politici esterni quali il governo imperiale o la curia papale[1]. Moeller sostiene che, con l’adozione della Riforma luterana, queste città furono in grado di ricuperare un senso di identità comunale, ivi compresa la nozione di una comunità religiosa collettiva capace di riunire gli abitanti in una vita religiosa comune. È significativo che moeller attiri l’attenzione sulle conseguenze sociali della dottrina luterana del sacerdozio universale di tutti i credenti, che fece abbandonare certe distinzioni tradizionali all’interno della società urbana e incoraggiò un senso profondo di unità comunale. Moeller sostiene che il pensiero di Lutero era il prodotto inevitabile delle regioni nord-orientali tedesche, culturalmente meno sviluppate, prive di quella raffinatezza presente nelle comunità più progredite della Germania sud-occidentale. Provenendo da una cittadina sassone che non aveva le strutture corporative delle gilde e gli stimoli comunali delle grandi città, ben difficilmente Lutero poteva evitare di produrre una teologia introversa, provinciale più che cittadina, incapace di rispondere alle necessità della disciplina comunale e delle strutture corporative cittadine.
Era prevedibile che la mancanza di familiarità di Lutero con le ideologie urbane contemporanee lo avrebbe condotto alla formulazione di una teologia tanto profonda e soggettiva, orientata verso l’introspezione individuale, quanto disimpegnata nella rigenerazione e nella disciplina delle comunità cittadine. Le teologie di Bucero e di Zwingli erano invece orientate, proprio all’opposto, verso le realtà dell’esistenza urbana. Bucero e Zwingli fondarono le loro ecclesiologie sul rapporto storico esistente fra comunità urbana e comunità ecclesiastiche, mentre Lutero fu costretto a edificare la sua ecclesiologia sulla base di una nozione astratta di grazia, che minacciava di compromettere l’unità cittadina.

L’ipotesi di Thomas Brady.
Una seconda spiegazione, di Thomas Brady, si fonda ampiamente sui dati della sua analisi della città di Strasburgo[2]. Brady sostiene che la decisione di adottare il protestantesimo a Strasburgo fu il risultato di una lotta di classe, in cui una coalizione di patrizi e di mercanti al potere ritenne l’unico mezzo a disposizione per poter mantenere la propria posizione sociale fosse allinearsi con la Riforma. Le oligarchie urbane introdussero la Riforma come un abile mezzo per conservare i propri interessi minacciati, messi in pericolo da un movimento di protesta popolare. Una situazione simile, ha sostenuto Brady, si è verificata anche in molte altre città.

L’ipotesi di Steven Ozment.
Una terza spiegazione dell’attrazione che la Riforma ha esercitato sulle comunità urbane del XVI secolo ha il suo centro nella dottrina della giustificazione per fede. In uno studio pubblicato nel 1975 Steven Ozment ha sostenuto che il fascino esercitato dal protestantesimo sulle classi popolari derivava da questa dottrina, che offriva sollievo dalla pressione psicologica del sistema penitenziale cattolico tardo-medievale e da una dottrina della giustificazione di tipo “semi-pelagiano” a questa connessa[3]. Dato che il peso di questo fardello psicologico era più grande e più evidente nelle comunità urbane – ha sostenuto Ozment – fu all’interno di queste comunità che il protestantesimo ha trovato il suo maggior sostegno popolare. Ozment ha sostenuto che Moeller ha accentuato troppo le differenze tra Lutero e i teologi sud-occidentali. I primi riformatori condividevano un messaggio comune, che può essere sintetizzato come la liberazione dei singoli credenti dai carichi psicologici imposti dalla religione del basso Medioevo. Nonostante le loro differenze, i riformatori che agivano d’intesa con le autorità civili dei loro paesi (magisterial reformers) – come appunto Bucero, Zwingli e Lutero – condividevano un comune impegno per proclamare la dottrina della giustificazione per grazia mediante la fede, eliminando così la necessità teologica delle (e annullando le preoccupazioni popolari per le) indulgenze, il purgatorio, l’invocazione dei santi, e così via.
Ciascuna di queste teorie è significativa; esse hanno fornito un importante stimolo per uno studio più particolareggiato dello sviluppo del protestantesimo urbano nella prima fase della Riforma. Eppure ciascuna di esse ha messo in evidenza delle debolezze, come in effetti ci si piò attendere da teorie globali ambiziose. Per esempio, nel caso di Ginevra, come vedremo, le tensioni sociali che alla fine condussero all’allineamento con la città protestante di Berna e all’adozione della Riforma di matrice zwingliana, non furono determinate da differenze di classe, ma da una spaccatura all’interno della stessa classe sociale sull’opportunità di restare uniti e soggetti al ducato di Savoia o di allinearsi con la Confederazione svizzera. I “mamelucchi” pro-savoiardi e gli “eiguenots” pro-bernesi provenivano ambedue dallo stesso gruppo sociale, caratterizzato da una gamma comune ben identificata di interessi economici, familiari e sociali condivisi. Similmente, l’ipotesi di Ozment di un interesse generale, nel popolo, per la dottrina della giustificazione per fede trova scarsi appoggi nel caso di molte città all’interno della Confederazione svizzera, o collegate a essa – come Zurigo, San Gallo e Ginevra – e trascura di tener conto delle esitazioni su quella dottrina da parte di molti riformatori svizzeri.

Elementi comuni nella Riforma urbana.
Nonostante questo, da uno studio sulle origini e sullo sviluppo della Riforma in città come Augusta, Basilea, Berna, Colmar, Erfurt, Francoforte, Amburgo, Lubecca Memmingen, Ulm e Zurigo, emergono alcuni aspetti comuni. È utile identificare questi elementi e notare come essi abbiano influito sulla nascita della Riforma nella stessa Ginevra.
In primo luogo, sembra che la Riforma nelle città sia stata adottata in risposta a determinate forme di pressione popolare mirante a una trasformazione dell’assetto sociale. Norimberga costituisce un caso raro di un Consiglio cittadino che attua una riforma senza una significativa protesta o richiesta popolare precedente. L’insoddisfazione tra le popolazioni urbane della prima metà del XVI secolo non era necessariamente soltanto di carattere religioso; lamentele e proteste sociali, economiche e politiche erano indubbiamente presenti, in misura diversa, all’interno di un groviglio di fermenti evidente a quel tempo. Normalmente i Consigli cittadini reagivano a questa pressione popolare canalizzandola spesso in direzioni confacenti ai propri bisogni e scopi. Quest’abile manipolazione di tale pressione era un modo ovvio di cooptare e controllare un movimento di protesta popolare potenzialmente pericoloso. Una delle osservazioni più significative che si possono fare riguardo alla Riforma delle città è che i regimi politici urbani preesistenti non subirono quasi mai cambiamenti sostanziali in seguito all’introduzione delle nuove dottrine e pratiche religiose, sostenendo con ciò che i Consigli cittadini erano n grado di rispondere alla pressione popolare senza effettuare cambiamenti radicali nell’ordine sociale esistente.
  Nel caso di Ginevra, si manifestò una notevole pressione popolare interna a favore di un più stretto rapporto d’alleanza con la Confederazione svizzera nel corso degli anni venti del’500. Questa pressione era stata il risultato di un certo numero di fattori, nessuno dei quali può essere a rigore considerato religioso. Ammesso che sia possibile individuare un’aspirazione dominante, questo era probabilmente il desiderio di gran parte dei cittadini eminenti di essere liberati dalla nefasta influenza del ducato di Savoia. Come varie altre città in quello stesso periodo, Ginevra aspirava ad una completa indipendenza, secondo il modello delle città svizzere[4] (Ginevra – è bene ricordarlo – entrerà nella Confederazione svizzera solo nel 1815). Era la libertà politica a costituire il punto di riferimento di molti fermenti ginevrini negli anni venti del ‘500, più che un particolare interesse religioso.
Nei primi anni trenta, tuttavia, entrò in scena un elemento religioso primario, fino a dominarla del tutto. L’alleanza della città con Berna determinò una crescente simpatia popolare per le posizioni evangeliche di quella città. Il Consiglio cittadino fu obbligato a venire incontro a questa pressione nel tentativo di evitare uno scontro militare, probabilmente disastroso, con la Savoia. Grazie ad una serie di mosse diplomatiche, nel 1534-35, il Consiglio cittadino fu in grado di vincere in astuzia i rappresentanti della Savoia, rafforzando la propria autorità e favorendo abilmente la causa evangelica senza provocare la resa dei conti finale con il ducato. Soltanto nel gennaio del 1536 il duca di Savoia Carlo II perse la pazienza con la diplomazia e decise l’intervento militare.
In secondo luogo, il successo della Riforma all’interno di una città dipendeva da un certo numero di situazioni storiche. Adottare la Riforma significava rischiare un cambiamento d’alleanze che poteva risultare disastroso, in quanto i trattati o le relazioni esistenti – militari, olitici e commerciali – con territori e città che sceglievano di rimanere cattolici venivano normalmente considerati decaduti per effetto di quella decisone. Le relazioni commerciali con una città da cui poteva dipendere la sua sopravvivenza economica rischiavano di essere così fatalmente compromesse. In questo modo il successo della Riforma a San Gallo fu dovuto in parte al fatto che l’industria cittadina di produzione del lino non fu danneggiata in misura significativa dalla decisione di aderire alla Riforma. Invece, una città come Erfurt, nelle immediate vicinanze di una città cattolica (Magonza) e di un territorio luterano (la Sassonia), non poteva rischiare di essere coinvolta in un conflitto militare con l’una o con l’altra di queste parti interessate, con risultati probabilmente fatali per l’indipendenza della città stessa[5]. Per di più, una grave mancanza di unione interna, come risultato della decisione di introdurre la Riforma, poteva rendere vulnerabile la città alle influenze esterne: fu questo uno dei motivi principali che spinsero il Consiglio della città di Erfurt a bloccare i tentativi di attuare la riforma negli anni venti del ‘500.
Nel caso di Ginevra, un fattore storico determinante era dato dalla presenza del ducato cattolico di Savoia e dei suoi alleati proprio alle soglie della città. Se si voleva che la Riforma trionfasse, era necessario neutralizzare la decisiva minaccia politica e militare contro la sua introduzione da parte di questo ducato. L’affermarsi del movimento, entro la città di Ginevra, che lottava per un’accettazione delle forme evangeliche di cristianesimo, negli anni 1532-35, finì per provocare una risposta militare da parte della Savoia nel gennaio 1536. Ginevra sarebbe stata completamente sopraffatta se non vi fosse stata l’alleanza militare con la città di Berna, che già era passata al fronte evangelico fin dagli ultimi anni venti del ‘500. Questo appoggio sarebbe stato integrato da aiuti economici da parte di istituti bancari evangelici, in particolare da Basilea, una volta che Ginevra avesse definitivamente accettato la Riforma. Come risultato, la pressione esterna per il mantenimento del cattolicesimo era più che controbilanciata. La Riforma poté avanzare. Tuttavia, un ulteriore fattore storico venne a complicare la situazione: Berna, avendo dato a Ginevra l’aiuto richiesto in un momento cruciale della sua storia, reclamava ora il proprio diritto di metterle la corda al collo. Ginevra non era libera di scegliere la sua strada per la Riforma: doveva adottare le credenze r le pratiche religiose già diffuse nella città di Berna.
In terzo luogo, la visione romantica e idealizzata di un riformatore che arriva in una città e predica l’evangelo, e ne segue una decisione immediata e unanime di adottare i principi della Riforma, deve essere abbandonata come del tutto irrealistica. Durante l’intero processo di Riforma, dalla decisione iniziale di avvio fino alle successive decisioni riguardanti la natura e i tempi successivi di attuazione delle proposte di riforma, era sempre il Consiglio della città ad avere in mano il controllo totale. La Riforma di Zwingli a Zurigo procedette in un modo molto più lento di quanto egli stesso avrebbe desiderato a motivo di un andamento prudente adottato dal Consiglio nei momenti cruciali[6]. Anche la libertà d’azione di Bucero a Strasburgo era limitata. Come Calvino avrà modo di scoprire, i Consigli cittadini conservavano il potere di espellere i riformatori dai loro uffici se avessero oltrepassato le linee politiche o le decisioni pubbliche prese dal Consiglio.
In pratica, il rapporto fra Consiglio cittadino e un riformatore era generalmente di simbiosi. Il riformatore, nel presentare una visione coerente dell’evangelo cristiano e delle sue conseguenze per le strutture religiose, sociali e politiche e per le iniziative pratiche di una città, era in grado di impedire che una situazione potenzialmente rivoluzionaria degenerasse nel caos. Il pericolo costante di un ritorno al cattolicesimo o la minaccia di sovversione da parte di movimenti anabattisti radicali rendevano necessaria e inevitabile la presenza di un riformatore. Qualcuno doveva imprimere una direzione religiosa a un movimento che se incontrollato senza direzione, poteva cadere nel disordine, con conseguenze inaccettabili e disastrose per le strutture di potere esistenti della città e per gli uomini che ne avevano la responsabilità. Il riformatore era quindi una persona sottoposta all’autorità, il suo potere d’azione era limitato dai responsabili politici, gelosi della loro autorità e portatori di un loro progetto di riforma che generalmente si estendeva al di là di quello del riformatore, in quanto comprendeva il consolidamento della propria influenza economica e sociale. Il rapporto tra riformatore e Consiglio cittadino era quindi molto delicato e facile a incrinarsi, ma il potere reale era stabilmente nelle mani del secondo.
Nel caso di Ginevra, si sviluppò un particolare rapporto fra il Consiglio della città e i suoi riformatori (inizialmente Guillaume Farel e Calvino, successivamente solo Calvino). Consapevole e geloso della sua autorità e libertà acquisita a duro prezzo, il Consiglio era ben deciso a non sostituire la tirannia di un vescovo cattolico con quella di un riformatore. Nel 1536 Ginevra aveva appena ottenuto la sua indipendenza dalla Savoia, e aveva sostanzialmente preservato questa indipendenza, nonostante tutti i tentativi di Berna di fare della città una sua “colonia”. Ginevra non aveva alcuna intenzione di ricevere ordini da nessuno, salvo che si trovasse nella dolorosa situazione di dover subire una massiccia pressione economica e militare. Come risultato di tutto questo, l’azione di Cavino dovette svolgersi entro limiti molto ristretti. La sua espulsione da Ginevra nel 1538 dimostra che il potere politico rimaneva saldamente nelle mani del Consiglio della città. L’idea che Calvino fosse il “dittatore di Ginevra” è totalmente priva di fondamento storico. Ciononostante, il Consiglio della città dovette constatare di non essere capace di fronteggiare una situazione religiosa che si deteriorava sempre di più durante l’assenza di Calvino. Con un atto di notevole pragmatismo sociale e di realismo religioso, il Consiglio decise allora il suo riformatore e gli permise di continuare il suo lavoro di riforma. Ginevra aveva bisogno di Calvino, proprio come Calvino aveva bisogno di Ginevra.






[1] B. Moeller, Imperial Cities and the Reformation, Filadelfia, 1972.
[2] T.A. Brady, Ruling Class, Regime and Reformation at Stasbourg, 1520-1555, Leiden, 1977.
[3] S.E. Ozment, The Reformation in the Cities: The Appeal of Protestantism to Sixteenth-Century Germany and Switzerland, New Haven, 1975.
[4] Le città svizzere erano spesso considerate, per quanto senza un reale fondamento storico, come modelli di libertà civica da parte delle loro consorelle tedesche oppresse: T.A. Brady, Turning Swiss: Cities and Empire, 1450-1550, Cambridge, 1985.
[5] Scribner, Civic Unity and the Reformation in Erfurt.
[6] F. Ferrario, La Sacra Ancora. Il principio scritturale nella Riforma zwingliana (1522-1525), Claudiana, 1993.

sabato 12 settembre 2015

La predestinazione

La dottrina della predestinazione ha a che fare molto da vicino con la realtà profonda di Dio, anzi ci conduce, come la dottrina della Trinità, nel cuore del suo mistero. Calvino affermava che interrogarsi sulla predestinazione significa “entrare nel santuario della sapienza divina”, ma per evitare che questo santuario si trasformi in “labirinto” bisogna che la mente umana non  pretenda di scandagliare a tutti i costi ogni segreto che Dio ha voluto riservare a sé soltanto. Calvino lo ricorda non per soffocare le domande, ma per avvertire che non a tutte le domande è possibile oggi dare una risposta. Il termine predestinazione, benché biblico, può facilmente trarre in inganno in quanto suggerisce l’idea di un “destino” molto simile al Fato che ha dominato tanta parte del pensiero greco antico e al quale ogni esistenza umana era sottoposta, senza possibilità di sfuggire. Ne  può nascere una visione fatalista della storia e della vita. Il termine “predestinazione” non esprime adeguatamente il messaggio che contiene. Meglio sarebbe parlare di “elezione”. La predestinazione, infatti, non è altro che l’elezione di cui parla l’apostolo Paolo quando dice che in Cristo Dio “ci ha eletti prima della fondazione del mondo” (Ef 1,4). È l’esperienza del profeta Geremia, al quale Dio rivela “Prima che io ti avessi formato nel seno di tua madre, io ti ho conosciuto” (Ger 1,5). Ed è quello che dice Paolo “Quello che Dio ha preconosciuti, li ha pure predestinati”. Predestinati a cosa? “ad essere conformi all’immagine del suo Figlio” (Rm 8,29), a seguire il suo esempio facendo quello che ha fatto lui (Gv 13,15), ad avere “lo stesso sentimento” che è stato in lui (Fil 2,5), a custodire e osservare le sue parole. A tutto questo tende la predestinazione. Predestinazione vuol dire che Gesù è il nostro destino. Ma appunto: questo “destino” che è Gesù, è “prima che Abramo fosse” (Gv 8,58), è iscritto in Dio da sempre. Ecco il senso del pre-conosciuti e del pre-destinati: Dio ci ha eletti, cioè ci ha pensati con amore, “prima della fondazione del mondo” cioè prima di creare il mondo e di creare noi. Un po’ come una madre che ama il suo bimbo prima ancora di concepirlo (cfr. Sal 139, 16-17). Non siamo figli del caso o della necessità ma di un pensiero di Dio e questo non è merito nostro (cfr. 1Cor 1,28-29). Ma secondo la dottrina della doppia predestinazione, Dio destina gli uni a salvezza eterna e gli altri a condanna eterna. Dio è davvero una specie di Giano bifronte che con una mano salva e con l’altra fa morire? Calvino, come altri teologi prima di lui quali Gregorio da Rimini e Ugolino da Orvieto, e altri dopo di lui (ad esempio il Sinodo di Dordrecht del 1618-19), hanno sostenuto malgrado le difficoltà la dottrina della doppia predestinazione. In realtà nella Bibbia c’è,in tutta una serie di passi, qualcosa che somiglia ad una doppia predestinazione anche se non si può sostenere che nella Bibbia vi sia una dottrina in merito. In essa la doppia predestinazione non viene teorizzata ma solo constatata. Alcuni testi sembrano affermarla, altri escluderla. Un solo esempio: da un lato la Bibbia afferma ripetutamente che la salvezza è per tutti (cfr Rm 11,32); dall’altro lato le parole di Gesù e di Paolo sembrano dire il contrario (cfr. Mt 22,14; 24,40; Rm 9,18). K. Barth ha provato a superare questa apparente contraddizione muovendo una critica radicale all’interpretazione tradizionale della dottrina della doppia predestinazione. Il “si” ed il “no” di Dio sull’umanità esiste realmente, ma il “no” di Dio è stato inchiodato e cancellato sulla croce da Cristo. Dopo la croce e la risurrezione resta solo il “si”, solo la predestinazione alla salvezza. In Cristo la doppia predestinazione diventa un’unica predestinazione: quella alla salvezza e alla vita eterna. Che si accetti o meno la posizione di Barth, la predestinazione fonda il trionfo della grazia in quanto l’elezione in Dio precede assolutamente ogni merito dell’uomo; essa è il corollario del primato della grazia, cara alla Riforma, e addirittura il suo coronamento. Per questo Calvino affermava che questa dottrina “non è soltanto utile, ma anche dolce e saporita per i frutti che reca”.

Sola Scriptura?

Dire sola Scriptura significa escludere la possibilità che nella conoscenza e nel rapporto con Dio abbiano una validità orientatrice al di sopra di ogni critica l’esperienza e la tradizione della chiesa. I fedeli non sono immuni dall’errore. Fedeltà a Dio non significa che i credenti in Cristo non possano errare nei loro orientamenti, nelle loro scelte, nella loro teologia che resta legata a condizionamenti culturali, epocali, psicologici. Affermare il contrario significa non tener conto della storicità della propria professione di fede, come se alla possibilità del peccato morale e del dissenso non potesse corrispondere l’infedeltà sul piano dottrinale. Tutto questo storicamente è già accaduto: basti ricordare le invettive dei profeti a Israele, il popolo eletto, che invocano l’ira di Dio contro un popolo ostinato e ribelle (Is 5,24; Ger 4,22), il cui culto è divenuto un peso (Is 1,14-15; Am 5,21-23); perfino il Tempio non costituisce più garanzia di approvazione (Ger 7,14), i pastori sono guide incapaci (Ger 2,8). La predicazione di Gesù si inserisce nella linea profetica accusa i giudei di non conoscere Dio (Gv 8,55) di essere chiusi all’Evangelo (Gv 8,37.43.47), di non credere alla verità (Gv 844-45). Di fronte a tutta la tradizione religiosa ed etica giudaica Gesù contrappone il suo “Ma io vi dico” (Mt 5,22.28.32.34.39.44), accusa i giudei di trasgredire e annullare la Parola di Dio per la loro tradizione (Mt 15,3.6; Mc 7,8.9.13). Anche le prime comunità di seguaci di Cristo non sono immuni da queste infedeltà. Paolo reagisce con estrema energia contro i credenti di Galazia, di Corinto, di Filippi, che sono stati ammaliati da falsi fratelli, da falsi apostoli, così da passare dall’evangelo di Cristo ad un altro evangelo predicato da sovvertitori.  Giacomo polemizza con Paolo sulla questione delle opere necessarie alla giustificazione mentre per Paolo solo la fede giustifica. L’autore degli Atti presenta un Paolo docile alla tradizione giudaica mentre nelle sue lettere l’apostolo considera spazzatura tale tradizione. L’Apocalisse denuncia quelli che si fanno chiamare apostoli e non lo sono (Ap 2,2; 3,1). Possono bastare questi cenni per dimostrare che è illusorio supporre, anche alle origini, l’esistenza di una chiesa unita, pura e fedele, capace di adeguarsi alla norma evangelica e di essere lei stessa norma per i credenti. Già nel NT si registra la presenza di tendenze contrastanti e inconciliabili, ciascuna delle quali rivendica per sé l’autentica interpretazione dell’Evangelo. Nei secoli successivi tale fenomeno si accentuerà in proporzioni massicce. Se dunque neppure la chiesa è la norma capace di rappresentare con autorità l’Evangelo, dove si deve ricercare tale norma? La tradizione protestante risponde “sola Scriptura”.

lunedì 6 aprile 2015

"Se" e "ma"

“Se” e “ma” sono forse i due termini più usati nella nostra lingua italiana. Ad ogni affermazione, proposito, impegno, decisione, risultati a seconda delle convinzioni degli interlocutori e dei probabili vantaggi, è inevitabile far precedere il tutto almeno da un “se” o da un “ma”. Direi che distinguere, prevedere situazioni alternative, in fondo, fa parte della complessità e non omogeneità delle cose stesse e ancor di più di noi umani. D’altra parte rifugiarsi e nascondersi tra i “se” di ipotesi lontane e irrealizzabili, oppure sminuire, se non proprio distruggere il buono e il bello che non dimeno sono presenti sulla tavola della storia, con i “ma” delle tante pagliuzze individuiate negli altrui occhi, significa quasi sempre rimanere ingessati nei pregiudizi o darsi prigionieri nelle gabbie di un passato che non può tornare, o di un futuro semplicemente fantasticato, quasi un alibi al disimpegno a fare ora la propria parte sulle polverose e sconnesse strade dell’oggi. Alo netto dell’uso eccessivo di queste due paroline, mi pare ugualmente, anzi ancora più urgente, evitare quella formula usata ed abusata negli ultimi anni “senza se e senza ma!”. Non perché non ci siano situazioni o momenti della vita di ciascuno in cui è necessario prendere delle decisioni chiare e non rinviabili, anche a costo di rimetterci di persona, ma perché la verità, per sua natura, va sempre cercata e, pur essendo una, come il più splendente diamante emette un’infinita varietà e ricchezza di luci e di colori. Così quando i “senza se e senza ma” sono troppi, è come voler vedere sempre tutto ad un’unica dimensione – quasi sempre la propria! – restringendo i già stretti sentieri del travaglio interiore o semplicemente del dubbio e, cosa che può divenire veramente disastrosa e drammatica, rischiare di chiudere gli spazi del confronto e del dialogo, che appartengono a quelle distintive e peculiari note dell’homo sapiens. Proviamo ad incamminarci nel nuovo anno, dono del Signore, con speranza, fiducia e coraggio. Sulla scena dl mondo sono apparsi significativi segnali positivi, mentre rimangono ancora forti e diffusi i conflitti territoriali, religiosi, sociali ed economici. I primi sono senza dubbio frutto della buona volontà di ascoltare tutte le ragioni dell’altro e, nel contempo, rivedere o ridimensionare le proprie certezze o quantomeno smorzarne l’intensità e aggressività con le quali vengono proposte e non di rado imposte. Gli altri sono invece la prova lampante delle varie intransigenze culturali, religiose e politiche, dal senso inequivocabilmente identico: questo è il nostro “senza se e senza ma”. L’alba, che ha sempre colori tenui, caldi e delicati,  del nuovo anno, invece, sia per tutti metafora della reciproca, rispettosa e dialogica accoglienza di quanti il Signore metterà sulla nostra strada, senza esagerare con i “se” e con i “ma”.

domenica 28 dicembre 2014

Il rapporto con i media

“L’ha detto la televisione”, “l’ho trovato su internet”: verità e falsificazione nel mondo  impossibile -  rapporto tra verità e media. Quando Abramo si trovò al cospetto di Dio, che gli comandava il sacrificio del figlio Isacco, era da solo. E quando lasciò i servi ai piedi della montagna, non fece parola con nessuno di quel che Dio gli aveva comandato. Questo perché, secondo il filosofo Jacques Derrida, Dio era stato chiaro nel comandargli il silenzio. “Soprattutto niente giornalisti!”, gli avrebbe detto. Si tratta naturalmente di un paradosso, divertente e insieme acuto: un pretesto per attirare l’analisi sull’uso dei media nel campo aperto della riflessione filosofica e rileggere la prima con gli strumenti della seconda, addentrandosi nel mai esaurito rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica. “E’ necessario che la prova che ci tiene uniti non diventi una notizia. È  necessario che questo evento non diventi una notizia, né buona né cattiva”. Secondo il filosofo francese il motivo è semplice: tutto ciò che viene detto di un fatto non è più il fatto stesso e, dunque, in qualche misura lo tradisce. Difficile negarlo. In un cerro senso proprio questa presa diretta sulla realtà è ancora più falsante perché il filtro fra noi e lei sembra assottigliarsi fino a scomparire e invece è sempre lì e noi rischiamo di dimenticarcene. la protesta contro la tecnica è uno dei significati principali di questa tecnica che chiamiamo televisione e che sostiene di restituirci la cosa in sé , diversamente da tutti gli altri media che lo fanno in differita. Insomma, quello tra media e verità è sempre un rapporto a rischio, il quale sta innanzitutto nell’ambiguità tra ciò che viene detto o mostrato e la sua aderenza alla realtà. Ambiguità che non solo i media ma gli stessi fruitori alimentano, assegnando a giornali e tv un potere assoluto sulla verità. Un maggior spirito critico dei secondi e un più costante esercizio di  responsabilità nei primi, possono contribuire a rendere un miglior servizio alla verità, e perciò a noi stessi che, ben lontani dall’imperativo derridiano, abbiamo bisogno continuamente di notizie, di qualcuno che ci descriva fatti, che ci riporti opinioni. E, ben sapendo che tutte queste informazioni non costituiscono mai la verità, vogliamo però che le si avvicinino il più possibile. La ricerca della verità passa sempre attraverso una capillare e precisa informazione (cfr Lc 1,1-4).

Io sono la Porta

Le porte si aprono e si chiudono, ovviamente! Indicano l’ingresso ma anche la chiusura, attraverso di esse si entra e si esce. Nella Bibbia, sia nella Prima Alleanza che nel Nuovo Testamento, l’immagine della porta è utilizzata spesso in tutta la ricchezza della sua simbologia. Varcare le porte di Gerusalemme, per andare incontro al Signore nel Tempio, era la più attesa delle aspirazioni di ogni buon israelita (cfr. Sal 122,9). Indicava la gioia profonda di entrare nel luogo del Signore, nella sua Casa, là dove poteva ritrovar la shalom-pace, l’armonia e il perdono. Giacobbe nel famoso sogno della scala raccontatoci in Gn. 28,11-22, fa l’esperienza della presenza di Dio, si affaccia nella sua casa: “Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!” (v. 17). Quel luogo sarà chiamato appunto Betel, cioè la Casa del Signore. In una parola, per incontrare Dio è necessario mettersi in cammino, lasciarsi alle spalle il proprio luogo ed entrare nel suo spazio, nella sua casa, che peraltro ha la porta spalancata. Il NT allarga e, in un certo senso sconvolge, la metafora della porta: non è l’uomo che “per primo” si è messo in cammino (cfr. 1Gv 4,19), ma è Dio stesso che nel suo Figlio Unigenito entra nella storia umana attraversandone la porta. L’uomo è così divenuto lui stesso lo spazio di Dio, il luogo santo, il vero tempio, dove prende dimora e si manifesta la Gloria di Dio. La gloria di Dio è l’uomo vivente (Ireneo di  Lione)! Nella persona di Gesù, Figlio di Dio e figlio di Maria e Giuseppe, l’immagine della porta giunge alla sua pienezza e trova l’inimmaginabile e ineguagliabile coincidenza: per mezzo di Cristo l’Eterno Dio entra nel tempo per venire incontro all’uomo e l’uomo “solo” attraverso di Lui può incontrare Dio: “Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato” (cfr. Gv 10,1-11). Al di là, dunque, della ricchezza e della pluralità di significato che la Parola di Dio lega all’immagine della porta, il messaggio unificante è che essa in primo luogo indica apertura, possibilità di incontro, disponibilità ad accogliere. Il Signore ha la sua porta sempre aperta, spalancata; con molta onestà dobbiamo riconoscere di non poter dire altrettanto di noi! La chiusura, il rifiuto, la privacy, sembrano definire con più verità le nostre porte. Anzi, spesso proprio noi cristiani teniamo chiuse anche le porte delle nostre chiese e impediamo addirittura al Signore di uscire per strada e andare incontro agli uomini. Qualunque sia la nostra situazione spirituale mettiamoci in ascolto di quanto ancora una volta ci annuncia la nascita del Salvatore: il Natale del Signore ci ricorda il suo umile ingresso nella nostra storia, ci invita ad entrare senza timore nella sua e ci spinge con dolce fermezza ad aprire, a spalancare le tante nostre porte, spesso sbarrate e blindate. Cominciano da quella principale, la porta del cuore!

La benedizione di Aronne

Iniziare la giornata con l’auspicio che Dio ci sia propizio è indubbiamente una bella carica di energia spirituale. Tutto sembra più facile, ogni angolo oscuro della strada è illuminato dalla luce del suo volto e quindi si cammina spediti e senza tentennamenti. Bisogna però arrivare alla sera e talvolta col passare delle ore la luce svanisce e il volto di un Dio propizio sembra scomparire nell’ombra. Il passo allora si fa incerto e si palesa sempre più chiaramente il desiderio di qualche altra formula propiziatoria, magari più efficace di quella con cui è iniziata la giornata. La cosiddetta benedizione di Aaronne (Numeri 6, 24-26) è tutt’altro che una semplice formula propiziatoria. In ebraico è essa si chiama Brirkat Kohanim, vale a dire “Benedizione sacerdotale”. Nell’ambito ebraico con questa benedizione si concludono – ancora oggi – i momenti più solenni della vita comunitaria. Il concetto centrale di questa formula è la pace. Il termine ebraico shalom non esprimere soltanto la prosperità di un tempo in cui si sono spente le grida di guerra. Shalom è la perfetta armonia che nasce dal compimento della volontà dell’Eterno. Una vita all’insegna della perfetta armonia è il più antico e il più grande desiderio dell’umanità intera e di ogni singola persona. In questo senso si può parlare di una grande benedizione (o di una benedizione originale che si contrappone al peccato originale) promessa da Dio. Non di rado succede però che una benedizione liturgica sia intesa come una semplice legittimazione di un desiderio umano. In tal caso siamo di fronte a una pura superstizione. La benedizione di Aaronne non è una certificazione rituale di un desiderio umano. Al contrario: si tratta di un’affermazione solenne di una libera e consapevole sottomissione alla volontà di Colui che è l’unico vero artefice della pace.